Piattaforma di ricerca e volontariato sulla diversità a partire da ecologia e animalità
di Alessandra Colla
Il 19 novembre 2011 l’attivista e studiosa statunitense Marti Kheel perdeva la sua ultima partita con la leucemia; e il campo (sempre più ricco e popoloso) degli studi sul ripensamento del non-umano perdeva una delle sue figure più valide, coerenti e significative.
La vita, le idee, gli scritti
Nata a New York nel 1948, la sua prima manifestazione in favore degli animali è del 1960: appena dodicenne, appare di spalle in una foto di famiglia in segno di protesta per l’esclusione dal gruppo dell’amatissimo gatto Booty-tat. Diventa vegetariana nel 1973, dopo una serie di esperienze (che lei stessa definirà “sconvolgenti”) nei ristoranti e nelle salumerie che le aprono gli occhi sull’esistenza a cui sono condannati i viventi che per noi sono “carne”. Quattro anni dopo, trasferitasi in Canada, a Montreal, entra a far parte dell’organizzazione Animal Liberation Collective: qui, prendendo a mano a mano coscienza del trattamento riservato dalla nostra società ai senzienti non-umani, Marti modifica radicalmente il suo modo di vivere e diviene vegana.
Tornata in California agli inizi degli anni Ottanta, insieme ad altre attiviste fonda il FAR – Feminists for Animal Rights, nella speranza di colmare la distanza apparentemente irriducibile fra i movimenti che si battono per i diritti delle donne e degli animali. Il suo intento si traduce in una serie di diapositive che illustrano con chiarezza disarmante i punti in comune nel modo di vedere le donne e gli animali non-umani tipico della società patriarcale. La proiezione di queste diapositive non soltanto sorprende e piace, ma viene adottata ufficialmente dal FAR per un giro di presentazione del movimento e di questa dirompente intuizione in tutti gli Stati Uniti e anche all’estero. (Anche se attualmente il FAR non esiste più, il messaggio forte e chiaro dell’esistenza di un legame indiscutibile fra gli abusi sulle donne e gli abusi sugli animali non-umani continua a trovare sostenitori e ad ispirare riflessioni).
Comincia qui un’intensa attività intellettuale, mai disgiunta da un concreto attivismo, che rendono Marti Kheel un’esemplare figura di riferimento nel mondo dell’impegno a favore degli animali non-umani. Nel corso degli anni Kheel approfondisce e allarga i suoi studi, nello sforzo di delineare una filosofia olista ecofemminista: uno sguardo onnicomprensivo sul mondo che, individuando le cause prime dei problemi sociali, possa fornirci gli strumenti adeguati per sviluppare un nuovo modo — empatico e rispettoso — di porci in relazione con tutti i viventi..
Gli articoli e i saggi di Marti Kheel sono stati tradotti in parecchie lingue e sono comparsi su numerose riviste e antologie[1]. Fra tutti, meritano di essere ricordati qui almeno tre scritti — The Liberation of Nature: a Circular Affair (1985); From Healing Herbs to Deadly Drugs: Western Medicine’s War Against the Natural World (1989); From Heroic to Holistic Ethics: The Ecofeminist Challenge (1993) — e il suo ultimo libro, Nature Ethics: An Ecofeminist Perspective (2008).
The Liberation of Nature: A Circular Affair
Apparso nel 1985 sulla rivista “Environmental Ethics” (1985, vol. 7, n. 2), The Liberation of Nature: A Circular Affair rappresenta la prima critica all’ambientalismo da parte femminista. Si ricorda che a metà degli anni Ottanta, al culmine di un periodo di enorme diffusione e grande successo, negli Usa le teorie ambientaliste entrano nella fase di una severa revisione critica e iniziano a subire una seria messa in discussione: dopo i dubbi di Keith Thomas[2], che nel 1983 si chiede se gli atteggiamenti ambientalisti non siano una questione di moda, ovvero un fatto eminentemente culturale legato a una mutevole percezione soggettiva dell’oggetto-natura (da originario luogo di pericolo a fonte di meraviglia e quindi entità da venerare, per finire poi col diventare un’area incontaminata riservata a un’élite di esteti), arrivano le certezze di Alston Chase: è il 1986, e il suo Playing God in Yellowstone: The Destruction of America’s First National Park costituisce probabilmente la prima e più organica critica del pensiero ambientalista[3]. Senza troppi giri di parole, Chase denuncia l’instabilità delle teorie ambientaliste e la loro stretta dipendenza dalle mode culturali e politiche, mettendone a fuoco le rovinose ripercussioni sul piano pratico ed evidenziando la concreta incompetenza dell’essere umano nella comprensione e conseguentemente nella gestione delle aree non civilizzate.
Se è vero che esiste uno Zeitgeist, il testo di Marti Kheel — che appare cronologicamente in mezzo a quelli di Thomas e Chase — conferma l’ipotesi che a un attento esame, dopo l’entusiasmo iniziale per la novità epistemologica e politica rappresentata dall’approccio ambientalista, quest’ultimo non sia in grado di reggere nemmeno l’urto col falsificazionismo popperiano, rivelandosi al contrario un’ennesima costruzione ideologica; ed è significativo che ancora vent’anni dopo, nel 2008, il romanzo-saggio di Michael Crichton State of Fear (trad. it. Stato di paura) abbia potuto suscitare nuovamente un vespaio di polemiche e costare al suo autore durissimi attacchi.
Lo scritto di Marti Kheel è, a tutti gli effetti, un testo fondativo nel senso più concreto del termine: ripreso e citato innumerevoli volte, e impiegato a buon diritto come materiale didattico per molti corsi universitari, le argomentazioni che esso contiene costituiscono la base solida e armoniosa sulla quale, nel tempo, Kheel edificherà riflessioni sempre più strutturate nell’elaborazione di una cerniera fra tutela degli animali ed etica dell’ambiente.
Dunque, muovendo dalla constatazione che a partire dalla metà degli anni Sessanta (del XX secolo) «il pensiero femminista ha gettato una luce radicalmente nuova su molti campi d’indagine» e particolarmente, a cavallo degli anni Ottanta, sull’atteggiamento «della nostra società nei confronti della natura», Kheel rileva il contemporaneo emergere di un «nuovo ambito filosofico chiamato “etica ambientale”» responsabile di una cospicua mole di studi; ma Kheel rileva anche altri due elementi singolari: 1) gli autori attivi in questo campo sono perlopiù di sesso maschile e 2) nessuno di essi, indipendentemente dal sesso, mostra «il benché minimo interesse per la letteratura femminista» sul rapporto civiltà-natura.
Così, l’intento che l’autrice si prefigge in questo scritto è precisamente quello di «colmare questa lacuna e mostrare che il pensiero femminista può, certamente, gettare una luce significativa su questa importante area di studi»; e lo fa ricordando una cifra caratteristica dell’elaborazione femminista — la «critica del pensiero dualista occidentale. Il pensiero dualista occidentale vede il mondo nei termini di una polarità statica — “noi e loro”, “soggetto e oggetto”, “superiore e inferiore”, “mente e corpo”, “animato e inanimato”, “ragione ed emozione”, “cultura e natura”. Tutti questi dualismi hanno due caratteristiche in comune: (1) il primo termine del dualismo è sempre valutato più dell’altro, e (2) il termine più valutato è sempre visto come “maschile” mentre quello meno valutato come “femminile”. La visione del mondo dualista proprio dell’Occidente può esser fatta risalire alla più antica filosofia greca e alle religioni giudaica e cristiana: essa si rafforza nel 1600 con la visione del mondo meccanicistica tipica della scienza moderna in via di affermazione. Il risultato di questa lunga storia di pensiero dualistico è stato lo spietato sfruttamento delle donne, degli animali e di tutta la natura». In opposizione a questo rigido schema di pensiero binario il femminismo concepisce «una visione olistica del reale, nella quale ogni cosa è integralmente connessa e pertanto parte di un più vasto “insieme”. Così, mentre il pensiero dualista ha percepito il mondo attraverso una “metafora spaziale (sopra-e-sotto)”, il femminismo ha visto la diversità all’interno di questo insieme più vasto. Le recenti scoperte della fisica quantistica hanno confermato questa visione femminista, verificando nel mondo della materia quello che una quantità di persone ha potuto sperimentare nel mondo dello spirito — l’unità dell’universo».
Tuttavia, nonostante la convergenza delle analisi femministe e dei risultati della fisica quantistica in direzione di una visione olistica del reale, e anzi in aperto contrasto con essa, «l’obiettivo di molta della letteratura sull’etica ambientale è consistito nello stabilire gerarchie di valore per le differenti parti della natura. Si è partiti dal presupposto che la gerarchia è necessaria per aiutarci a operare scelte morali nelle nostre interazioni con la natura. Il conflitto è stato dato per scontato, assumendo che una parte della natura deve sempre vincere, mentre un’altra deve sempre perdere. Così, in realtà, il campo dell’etica ambientale perpetua la tradizione del pensiero dualista».
Il concetto di gerarchia, insomma, sembra inscindibile da ogni analisi, e in sua assenza il meccanismo di pensiero occidentale sembra impossibilitato a funzionare: «Il concetto di gerarchia trova in letteratura due principali forme di espressione. Una è quella pertinente al dibattito in corso sulla questione se la preferenza morale debba essere accordata ai singoli individui o invece a un più vasto concetto di “tutto” (o di “comunità biotica”). […] L’altra si riflette nel tentativo, intrapreso sia dagli “umanisti etici” sia dai “liberazionisti”, di stabilire valori relativi per le singole parti della natura». La chiave per la risoluzione di questa impasse sta, a quanto pare, nel superamento della razionalità come unica griglia interpretativa: «Lo sforzo di formulare regole di condotta universali e razionali ignora il costante cambiamento sotteso alla natura del reale. Di più, esso trascura la componente emozionale-istintiva o spontanea presente in ogni situazione particolare, per cui alla fine il sentimento non può essere imbrigliato da limiti e norme; esso può, tutt’a un tratto, superare con un balzo ogni barriera di spazio, tempo e specie. Credo che sia questa incapacità di riconoscere il ruolo dell’emozione, mostrata dalla maggior parte dei suoi autori, ad aver perpetuato all’interno dell’etica dell’ambiente il pensiero dualista caratteristico della società occidentale».
Siamo dunque condannati a restare in eterno vittime di questa dicotomia? — dal momento che riprogrammare il meccanismo di pensiero che regge da millenni la società “civile” come noi la conosciamo è senza dubbio un’impresa titanica. No, risponde Kheel; e suggerisce che «un possibile primo passo […] per sforzarsi di cancellare queste divisioni è di sperimentare direttamente il pieno impatto emozionale sulle nostre decisioni morali. Se noi pensiamo, per esempio, che non ci sia nulla di moralmente sbagliato nel mangiare carne, dovremmo magari visitare un allevamento intensivo o un mattatoio per vedere se sentiamo nello stesso modo.[…] Quando siamo fisicamente separati dall’impatto diretto delle nostre decisioni morali — vale a dire quando non possiamo vedere, annusare o udire i loro effetti — priviamo noi stessi di rilevanti stimoli sensoriali, che possono rivelarsi importanti nel guidare le nostre scelte etiche».
Si afferma qui la profonda differenza fra il pensiero dualista occidentale e il sentire femminista: «Le femministe hanno sottolineato spesso l’importanza dell’esperienza personale in politica così come in altri campi apparentemente impersonali. Ma questa centralità è ugualmente vitale per quanto riguarda le decisioni etiche. Ed è questa, forse, l’implicazione più pratica dell’etica femminista: il fatto che dobbiamo coinvolgere noi stessi il più direttamente possibile nell’intero processo delle nostre decisioni morali. Dobbiamo fare delle nostre scelte morali un circolo chiuso».
La nostra civiltà, la nostra cultura ci hanno addestrato a motivare ogni nostra singola scelta con argomenti “razionali”, o che ci appaiono tali — spesso le nostre azioni appaiono incomprensibili agli altri, proprio perché le nostre argomentazioni al riguardo non sono puramente razionali, ma sono impastate con un misto di emozioni e sentimenti del tutto soggettivi che le rendono di fatto relative e non assolute. Così, se riuscissimo a dimostrare che non tutto «può essere giustificato col solo pensiero razionale, potremmo essere in grado di distaccarci dal nostro ego abbastanza per vedere che siamo, indiscutibilmente, parte di un tutto; e che nessuna parte di questo tutto può essere razionalmente definita più importante di un’altra»; riconoscere che «alle più fondamentali domande sulla natura e sull’universo non si può, alla fine, rispondere in modo esclusivamente razionale» potrebbe certamente intaccare «il senso di sicurezza e di controllo di cui molti di noi sembrano avere un disperato bisogno», ma d’altro canto ci porterebbe «più vicino ad avvertire la meraviglia dell’universo e forse, di conseguenza, ad apprezzare maggiormente ogni forma di vita».
(Prosegue)
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