Gallinae in Fabula Onlus

Piattaforma di ricerca e volontariato sulla diversità a partire da ecologia e animalità

Prima institutio fit in ore

di Alessandra Colla

«Prima institutio fit in ore»: ricalcata sulla più celebre «Prima digestio fit in ore», la brain trapped in cage.proposizione che ho formulato esprime una verità così nuda che la gente ne distoglie lo sguardo per non restarne turbata. E, non guardandola, la rimuove dal proprio orizzonte cognitivo.

«Prima digestio fit in ore», la digestione inizia nella bocca, è un precetto tratto dal Regimen sanitatis della Schola Salerni, l’illustre Scuola Medica Salernitana, antesignana delle moderne università e massima organizzatrice trasversale di saperi diversi — fra il IX e il XIII secolo, riuscì a fondere armonicamente le conoscenze mediche greche, latine, arabe ed ebraiche in un corpus al tempo stesso empirico e dottrinario, di straordinaria profondità e lungimiranza: il Regimen sanitatis, infatti, è una raccolta di consigli e prescrizioni ispirata dall’intuizione fondamentale che prevenire è meglio che curare (insegnamento, questo, che nel corso dei secoli si è perso per lasciare spazio alla parcellizzazione del sapere e alla reificazione del vivente, come dimostrano la teoria e la pratica della presente medicina “ufficiale”).

 Allo stesso modo, «prima institutio fit in ore»: il condizionamento socio-culturale inizia nella bocca —attraverso ciò che vi entra, il cibo, e attraverso ciò che ne esce, la parola. Assumo qui il termine institutio, “istituzione”, nel senso attribuitogli dai sociologi Peter Ludwig Berger e Brigitte Berger (che non a caso, come si vedrà, sviluppano le loro riflessioni proprio a partire dal linguaggio): «[…] la vita quotidiana è attraversata in ogni senso da modelli che regolano il comportamento di coloro che vi abitano e che contemporaneamente mettono in relazione questo comportamento con dei contesti di significato molto più ampio […]. Questi modelli di regolamentazione sono ciò che comunemente si intende col termine istituzioni. […] la vita quotidiana può essere compresa solo se vista sullo sfondo delle specifiche istituzioni che la compenetrano e dell’ordine istituzionale complessivo all’interno del quale è collocata. Reciprocamente, le specifiche istituzioni e l’ordine istituzionale nel suo complesso sono reali solo nella misura in cui essi sono rappresentati da persone e da eventi che sono immediatamente sperimentati nella vita quotidiana» (Berger e Berger, Sociologia. La dimensione sociale della vita quotidiana, il Mulino 1977, pp. 24-25).

Le istituzioni, dunque, sono definibili  «come modelli regolatori, cioè come programmi imposti dalla società alla condotta degli individui […]. […] il linguaggio è molto probabilmente la istituzione fondamentale della società, oltre ad essere la prima istituzione che l’individuo incontra nel corso della sua vita. È fondamentale perché tutte le altre istituzioni […] crescono sui modelli regolatori fondamentali del linguaggio. Lo stato, l’economia e il sistema scolastico […] dipendono da un edificio linguistico di classificazione, di concetti e di imperativi per le azioni individuali. […] il linguaggio è la prima istituzione incontrata dall’individuo [poiché] è lo stesso microcosmo del bambino ad esser strutturato dal linguaggio» (ivi, pp. 93-94).

Il condizionamento dell’individuo attraverso la parola si concretizza per mezzo di due meccanismi complementari fra loro, che sono l’oggettivazione della realtà e l’interpretazione della realtà: «Il linguaggio oggettivizza la realtà, cioè l’incessante fluire dell’esperienza viene consolidato, stabilizzato in oggetti identificabili e distinti. […] Oggettivando e stabilendo relazioni significative il linguaggio struttura anche l’ambiente umano del bambino. [Inoltre] con il linguaggio i ruoli [modelli ricorrenti di comportamento] si radicano nell’esperienza del bambino» (ivi, p. 95) insegnandogli qual è il suo posto e qual è il posto degli altri nella società — «nome collettivo con cui designiamo formazioni di vario tipo e diverso genere, ma aventi tutte in comune la struttura gerarchica, vale a dire la subordinazione dei più ad autorità superiori e a ordinamenti piramidali» (Francesco Saba Sardi, Dominio. Potere Religione Guerra, Bevivino 2004, p. 9).

Ora, poiché i ruoli rappresentano le istituzioni, il linguaggio offre una griglia interpretativa del reale che permette all’individuo di interagire col gruppo di riferimento per mezzo di un codice semantico non equivoco e tale da strutturare in positivo o in negativo qualsiasi esperienza del/nel mondo.

Come il linguaggio, dunque, così anche l’alimentazione contribuisce massicciamente alla formazione dell’individuo sociale, ovvero del singolo-nella-società: senza i singoli la società non esisterebbe, e senza la società il singolo non potrebbe dar corso al proprio pieno sviluppo ontologico — l’uomo è un animale sociale.

Del pari, come il linguaggio così è l’alimentazione a disegnare/designare l’appartenenza del singolo al gruppo: crescendo in contesti diversi si sviluppano gusti alimentari diversi; e non a caso chiunque adotti un regime alimentare diverso da quello del gruppo di appartenenza, pur continuando a vivere nel medesimo gruppo, nel migliore dei casi viene considerato un originale. Oggi le cose sono un po’ cambiate perché la globalizzazione ha reso possibile l’accesso a culture e dunque a costumi differenti: tuttavia nei confronti di numerose scelte alimentari ritenute stravaganti sussiste un vago sospetto di ossequio alle mode o di obbligazioni confessionali (aneddoto personale: mentre al supermercato compravo riso basmati e curry, una mia conoscente mi ha chiesto tra il serio e il faceto se fossi diventata buddista).

Per quanto riguarda la scelta vegana (ma anche soltanto quella vegetariana), la portata del suo potenziale impatto sull’economia è immensa:  se davvero si riuscisse ad eliminare o almeno ad abbattere corposamente il consumo di carne-pesce e derivati, la struttura stessa della società ne verrebbe profondamente modificata in concreto, con ripercussioni macroscopiche su qualunque aspetto del vivere quotidiano — si pensi al personale che lavora nei macelli e nelle industrie alimentari e d’abbigliamento e all’indotto che vi ruota attorno; alle officine che producono i macchinari utilizzati nelle stesse industrie; al volume del trasporto su gomma e su rotaia; alle costruzioni che ospitano allevamenti, stalle, mattatoi, depositi, rivendite… eccetera. Si tratterebbe, in buona sostanza, di riedificare la società umana secondo parametri culturali, economici, logistici, architettonici, urbanistici letteralmente inauditi — mai sentiti prima.

Scegliere, mantenere nel tempo e propagandare un regime alimentare diverso da quello del gruppo di appartenenza, dunque, reca davvero in sé la cifra di una ribellione al sistema di cui si fa parte: è una dichiarazione d’intenti, il personalissimo manifesto programmatico di una rivolta che comincia da sé per allargarsi all’altro. È la scintilla di una rivoluzione.

 Per quanto detto prima, anche l’assunzione di un linguaggio differente da quello del gruppo è rivoluzionario: non si tratta, chiaramente, di mettersi a parlare in un’altra lingua, bensì di attribuire al linguaggio del gruppo valenze etiche ed estetiche diverse. Per esempio, il termine “maiale” con tutti i suoi derivati e sinonimi ha un valore altamente dispregiativo: una porcata è una cosa fatta male, un maiale è un uomo riprovevole sotto molti aspetti, una troia è una donna di moralità nulla e condotta biasimevole eccetera; lo stesso destino è riservato ad altri animali non-umani: ti ammazzo come un cane, quella ragazza è un’oca, l’ho fatto su come un tordo eccetera. Nel momento in cui si decide di eliminare dal proprio modo di parlare alcuni termini, o di smettere di attribuire loro significati negativi, non ci si taglia fuori dal consesso dei parlanti, anzi si obbligano gli altri a prestarci ascolto: perché la cristallizzazione del linguaggio rende difficoltoso il coglimento di sfumature che non siano codificate dall’uso e dalla consuetudine. Adottare un modo di comunicare che, pur senza discostarsi dalle convenzioni semantiche del gruppo, ne mette in discussione alcune abitudini espressive mutuate dall’uso acritico e dal pregiudizio è una pratica che suscita interrogativi, incrina certezze, scalfisce convinzioni. È la scintilla di una rivoluzione.

Non a caso, “rivoluzione” in greco antico si dice neoterizein, e in latino novas res moliri (espressione, quest’ultima, su cui si potrebbe scrivere un trattato): fare cose nuove. Di sicuro, non esiste nulla di più nuovo del sovvertire un ordine culturale costituito da millenni, e le cui radici affondano in una dimensione temporale così remota da sfuggire al computo della civiltà come noi la conosciamo.

E, del resto, la rivoluzione è un processo lento. Le masse trionfanti in marcia o in rivolta di certa iconografia, se non sono utopia o propaganda sono certamente l’esito di un lavorìo assai più oscuro, sotterraneo e paziente: l’abolizione della schiavitù o le conquiste sociali da parte dei lavoratori e delle donne rendono bene l’idea di quanto sia lungo e faticoso il cammino verso il riconoscimento di ciò che dovrebbe essere semplicemente un dato di fatto.

La rivoluzione, come diceva Mao Zedong, non è un pranzo di gala — e neppure una catastrofe: non è un cambiamento di stato repentino e imprevedibile. Ma lancia segnali, richiede tempo, ed è una verità in marcia che niente potrà fermare.

3 commenti su “Prima institutio fit in ore

  1. nikmeditatoncmasterphilips1
    dicembre 11, 2013

    Mi scuso in anticipo se ripropongo la stessa osservazione che ho fatto nell’articolo di Andrea Romeo dedicato al “cibo”.
    E’ indubbio che i meccanismi di influenza sul gruppo citati da Alessandra Colla hanno un’efficacia potente, ma sono gli stessi meccanismi usati dal “potere”, che ha lunga esperienza in merito.
    Il concetto di fast food introdotto meno di 30 anni fa in Italia ne è la prova.
    Un modo di mangiare, inconcepibile all’epoca, è la norma ormai da parecchi anni.
    La differenza fondamentale tra una rivoluzione alimentare che parte dal basso rispetto a quella che parte dal “potere”, sta nei mezzi strutturali e non nell’eticità dei comportamenti.
    E’ vero: adesso ci sono anche i fast food vegani con tanto di marketing a supporto.
    Nati per imprimere un’accellerazione morale o per, appunto, marketing?

  2. nikmeditatoncmasterphilips1
    dicembre 11, 2013

    La rivoluzione è un processo a volte lento a volte repentino, ma è esattamente “l’esito di un lavorìo assai più oscuro, sotterraneo e paziente”. Un lavoro che generalmente è stato sempre portato avanti da una minoranza intellettuale, preparata, intelligente e piuttosto grintosa. Non dalla massa. Un lavoro che oggi deve penetrare la spessa cortina di propaganda mossa dall’alto delle industrie multinazionali. Dipanare questo fumo ammaliatore non è un’impresa facile, ma se non lo si toglie davanti agli occhi della massa, questa non sarà mai in grado di vedere oltre.
    Non posso negare l’estrema importanza dell’esempio rivoluzionario di uno stile di vita vegano, ma voglio rimanere realista e non riesco a figurarmelo come efficace controfumogeno. Occorre anche gettare qualche coperta bagnata sul fuoco.

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Questa voce è stata pubblicata il dicembre 11, 2013 da in Articolo, Filosofia.

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