Piattaforma di ricerca e volontariato sulla diversità a partire da ecologia e animalità
di Rita Ciatti
Se c’è un’esperienza che davvero ci accomuna tutti, animali umani e non, è quella della morte.
E della morte parliamo continuamente noi antispecisti. Ne parliamo per raccontare quanto sia ingiusto che miliardi di animali vengano uccisi solo per farne bistecche o indumenti di vestiario; ne parliamo indulgendo su particolari raccapriccianti per dimostrare quanto i mattatoi e altri luoghi di sfruttamento siano crudeli.
Parliamo della morte che tantissimi animali abbandonati o selvatici trovano sulle strade, spesso preceduta da ore di agonia.
Parliamo della morte che innumerevoli creature identificate solo da un numero (innumerevoli nel senso che è impossibile conoscerne persino il numero esatto) trovano per mano di vivisettori nei laboratori, o nelle reti dei pescatori o nei tir dove vengono condotti per arrivare alla destinazione ultima del mattatoio.
Insomma, più che l’esistenza, gli animali sembrano sperimentare una morte prematura e sempre cruenta.
Ma se di morte si parla moltissimo, si parla invero assai poco del lutto. Di quell’esperienza dolorosa e traumatica che si vive quando il nostro compagno animale ci lascia.
Soprattutto accade che raramente si riesca a esprimere fino in fondo tutta la gamma di sentimenti e stati d’animo provati – che vanno dalla rabbia, al senso di colpa, alla frustrazione, al dolore, fino alla depressione e stress post-traumatico – e questo perché nella nostra società il dolore per la perdita un animale non è equiparato a quello della perdita per un parente o persona cara umana e così viene sminuito, liquidato con una pacca sulle spalle e, immancabilmente, accompagnato dalla terrificante espressione: “era solo un animale”, o anche “muoiono ogni giorno migliaia di bambini, non puoi stare così male per un gatto (cane ecc.)”.
Nella migliore delle ipotesi, anche chi ci vuole bene e ci capisce, comprende cioè il nostro dolore, tenta di farcelo rimuovere dicendoci di non pensarci, di provare a uscire, a distrarci ecc..
Si finisce così per sentirsi in imbarazzo o addirittura ridicoli nell’esternare ciò che si prova veramente con il risultato che anziché esprimere i nostri sentimenti come sarebbe auspicabile fare, ci si chiude ancora più in sé stessi, bloccando o ritardando le normali fasi del superamento del lutto.
E sì, perché l’esperienza del lutto – io direi più il trauma del lutto – non è meno grave per il sol fatto che a morire sia stato il nostro cane anziché un nostro parente o amico umano.
Amore, affetto, assenza, sono sentimenti e condizioni che non si possono quantificare o delimitare entro confini ben precisi. Sono dirompenti, travolgenti, irrazionali, inspiegabili. Il vuoto lasciato da un esserino minuscolo quale potrebbe essere un cricetino può essere altrettanto ingombrante di quello lasciato da un familiare; anche perché gli animali che hanno vissuto con noi sono membri della famiglia a tutti gli effetti.
Il vuoto, l’assenza percepiti divengono spazi mentali che invadono ogni angolo della nostra mente.
Il baratro che ci si spalanca davanti nel momento in cui realizziamo l’assenza di colui che fino a qualche momento prima era un individuo vivo e poi è diventato nient’altro che materia in decomposizione, ci stravolge completamente; è un qualcosa difficile da razionalizzare e metabolizzare e finanche da spiegare. Anche perché si tratta di un dolore talmente personale, per quanto universale, che ognuno lo vive a modo suo e che perciò è impossibile da condividere. In più ha a che fare con l’ignoto, con l’inconoscibile per eccellenza che è la morte. Un evento che, per quanto si dica e ce la si racconti, rimane pur sempre inconsciamente inaccettabile.
Sentimenti comuni sono tuttavia il senso di colpa, la sensazione di non aver fatto abbastanza (anche se, razionalmente, sappiamo bene di aver fatto tutto ciò che ci è stato possibile fare). Se l’animale muore in clinica ci colpevolizziamo per non essergli stati accanto (anche se sappiamo di averlo portato in clinica proprio per tentare di salvarlo); se saremo stati accanto a lui durante la sua dipartita ci colpevolizziamo per qualche altro motivo e via dicendo.
Poi c’è la rabbia, la frustrazione, il dolore lancinante, i “se avessi fatto così invece di colà”, la disperata ricerca di dare un senso alla morte.
Ma va bene così. Sono tutti sentimenti e stati d’animo che è giusto vivere, che è sano e normalissimo vivere.
Quello che è sbagliato è reprimersi, smettere di parlarne per paura di essere presi in giro o ritenuti esageratamente attaccati a un animale.
Vorrei raccontare un aneddoto personale: lo scorso febbraio ho perso un gatto amatissimo, Blake. Per me era un gatto speciale, con cui avevo un rapporto speciale. Vederlo ammalarsi, deperire giorno dopo giorno e infine morire è stato un dolore devastante. Un dolore accentuato dal fatto che non mi è riuscito di sfogarmi come avrei voluto. Sì, ho scritto per lui, ho raccontato di lui: che è stato un po’ l’equivalente di una commemorazione funeraria, ma sento che molto altro è rimasto dentro, di inespresso.
Poi, non so perché, ma tutti pensano che la cosa migliore da dire a chi piange un animale sia di andare avanti, di smettere di pensarci, di lasciarlo andare e così via.
Ma no invece! Perché smettere di lasciare andare qualcuno se l’amore che si prova per lui è ancora lì, tutto intatto, come un blocco di granito inscalfibile?
Scioglierlo forse, scogliere l’amore per stemperare quel dolore. Ma c’è tempo e tempo. C’è un tempo per tenerlo stretto a sé quell’amore e un altro per liberarlo nel mondo, che divenga com-partecipazione e com-passione per tutte quelle altre creature che sono morte senza che nessuno abbia pianto per loro.
Poi si potrà trovare anche un senso: dargliene uno, che sia una promessa che si fa a sé stessi o altro.
Il trauma del lutto non può, non deve essere forzato. Va vissuto fino in fondo.
Un altro aneddoto: lo scorso mese, quando mi trovavo a Londra, ho visto nella vetrina di un negozio un portaocchiali decorato con due occhi di gatto. La decorazione è una decalcomania da una foto. Gli occhi di questo gatto sono identici a quelli del mio Blake. Appena ho visto questo oggetto mi è preso un colpo perché sembrava proprio lui. Come se stesse lì, ancora vivo a guardarmi da una vetrina, in attesa di incrociare di nuovo il mio sguardo. Così ho pensato di prenderlo. Il mio compagno mi ha detto: “Ma ne sei proprio sicura? Non è che dopo ti intristisci nel rivedere gli occhi di Blake?”.
“Certo che mi intristico”, ho risposto, “ma io voglio intristirmi, io non voglio dimenticarlo, io non voglio smettere di pensare a lui”.
Non è masochismo, come superficialmente si potrebbe pensare.
No, non si tratta di farsi del male rievocando l’animale amato, bensì sì tratta di continuare a riempiersi il cuore del suo ricordo, di tenerlo vivo dentro di sé, di commemorare ogni giorno il privilegio di aver così tanto amato un altro individuo.
E non voglio smettere di piangere. Perché ridere è considerato tanto bello e piangere no?
Questo vorrei dire. Che il lutto è un’esperienza difficile che merita di essere affrontata con consapevolezza e pienezza d’animo.
Non si può superare il dolore semplicemente smettendo di pensarci, sarebbe sbagliato e oltremodo ingiusto.
In letteratura molti autori hanno raccontato della morte di un animale caro, ma pochi del lutto che ne è seguito; tra questi ultimi val senz’altro la pena di ricordare il bel testo – brevissimo, ma intenso – di Jean Grenier, dal titolo In morte di un cane. Un testo in cui il filosofo – che ebbe un’influenza profonda sul giovane Camus suo allievo all’università e con il quale strinse un’amicizia profonda suggellata da un intenso scambio di lettere – riporta i pensieri annotati su un taccuino in seguito alla morte del suo cane e così dà inizio al suo percorso personale di elaborazione del lutto.
Anche voi potete farlo, potete scrivere del vostro amato animale, come ad esempio ha fatto Giovanni Manizzi in memoria della sua Stella (dal quale ho preso spunto per il titolo di questo pezzo) o come tanti altri hanno fatto su FB salutando i loro amici con una foto, un pensiero, il ricordo di una giornata vissuta insieme.
L’importante è che non vi teniate tutto dentro, che non vi sentiate sciocchi nel piangere il vostro amico animale perché vivere l’esperienza del lutto significa proprio questo: piangere. Che lo si faccia con le lacrime, con un pensiero o con un sospiro, poco cambia.
Ciò che conta è restituire dignità a questo dolore, al vostro dolore. Che non è meno degno di essere vissuto sol perché si piange un animale non umano. O una lumachina. O uno scarafaggio. Perché qualsiasi creatura di cui ci si prende cura – e che a sua volta si prende cura di noi donandoci amore incondizionato – è una creatura per cui vale la pena piangere quando se ne andrà.
(dedicato a Monica, un’amica che mi ha invogliata scrivere queste righe, a Giovanni, con cui ho parlato spesso del lutto per i nostri animali e, ovviamente, a Blake)
ho letto d’un fiato questo tuo articolo, e sono rimasto molto colpito. hai una notevole capacità di focalizzare i concetti, all’interno della variabilità e mutevolezza delle emozioni. una capacità che a me manca, temo.
del tutto condiviso da me il tuo pensiero sul ‘prendersi cura’ che è a due sensi: la creatura di cui ci prendiamo cura, a sua volta si prende cura di noi donandoci amore incondizionato. Nel mio caso, Stella ‘proteggeva’ me almeno tanto quanto io proteggevo lei. E la consapevolezza dell’ essere destinatari di cure, oltre che elargitori,. non dovrebbe abbandonarci mai, anche perché è il modo più giusto per riconoscere la capacità di agire in modo consapevole e non passivo che tutti gli altranimali hanno e che dunque condividono con noi.
Così come non sono passivi nemmeno quando sono prigionieri della morsa zootecnica o vivisettoria, ma cercano sempre di resistere, di scappare; pongono sempre domande, fanno sempre richieste.
Una volta di più, ti ringrazio e ammiro la tua azione di scrittura, Rita. 🙂
🙂 Grazie a te Giovanni.
Non è vero che ti manca la capacità di focalizzare i concetti, io trovo che quello che hai scritto per Stella, haiku compresi, sia, non solo molto bello, ma efficace nel rendere l’unicità della vostra relazione e del vostro legame che continua anche dopo la sua morte.
Grazie!