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LO STATO
Nel corso del 2019 nella foresta pluviale amazzonica si sono registrati 73 mila eventi incendiari, quasi il doppio rispetto al numero d’incendi nello stesso periodo del 2018. In particolare, nel luglio scorso, come evidenziato dall’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (Inpe), sono stati bruciati 225mila ettari di foresta pluviale amazzonica, il triplo rispetto a quelli del luglio 2018, con devastanti conseguenze per la biodiversità e gli equilibri ecosistemici di uno dei più importanti polmoni della Terra.
La mappa mostra gli incendi della foresta amazzonica dell’ultimo mese. Fonte: NASA MODIS
COME CI SIAMO ARRIVATI
Negli anni Settanta e Ottanta, la giunta al potere di militari ha lanciato programmi di sviluppo agricolo e di sfruttamento minerario, implementato infrastrutture e aiutato il trasferimento di coloni al sud, come azione preventiva contro la bramosia delle potenze straniere sulle terre della foresta Amazzonica. Da allora, dopo il ritorno della democrazia, la zona è divenuta terreno di scontro costante tra chi lotta per preservare la foresta e chi è intenzionato a continuare la “colonizzazione”.
L’arrivo al potere di Bolsonaro ha segnato un punto di svolta dopo anni di compromessi, che avevano portato a una riduzione del tasso di deforestazione in Brasile del 72% tra il 2004 e il 2018. Il nuovo presidente, infatti, ha dichiarato fin da subito l’intenzione di revisionare i vincoli ambientali così da poter sfruttare efficacemente le terre su cui sorge la foresta. L’obiettivo è quindi quello di garantire che la produzione agricola e la ricerca mineraria siano prioritarie rispetto alla protezione ambientale, e alla tutela delle tribù indigene, e per questo motivo il governo giustifica gli incendi che disboscano territori sfruttabili in altro modo.
Dunque il presidente Bolsonaro ha accelerato un processo che era già in atto da circa trent’anni. Questo rinnovato interesse per le terre amazzoniche si deve alla domanda crescente di prodotti dell’agricoltura industriale estensiva, a causa della costante crescita della popolazione mondiale, e del delinearsi di nuovi equilibri geopolitici: da quando Trump ha iniziato la guerra dei dazi con Pechino, i produttori brasiliani hanno esportato il 30% di soia in più verso la Cina.
I FRAGILI EQUILIBRI AMBIENTALI
La distruzione della foresta pluviale amazzonica sta rapidamente liberando anidride carbonica nell’atmosfera, e distrugge un ecosistema che ogni anno assorbe milioni di tonnellate di emissioni di carbonio, una delle migliori difese del pianeta contro il cambiamento climatico.
Il climatologo brasiliano Carlos Nobre ha detto di temere che se tra il 20 e il 25 per cento della foresta venisse distrutto, l’ecosistema potrebbe raggiungere un punto di non ritorno. Al momento, sempre secondo Nobre, siamo vicini al 15-17 per cento di foresta distrutta.
IL CONSUMO DI CARNE: UNA VARIABILE FONDAMENTALE
Il consumo di carne mondiale è in aumento, e questa crescente domanda porta all’incremento del numero degli allevamenti intensivi, per cui diventano sempre più richiesti il mais e la soia da mangime animale. Attualmente, circa un terzo delle terre arabili è destinato alla produzione di prodotti per la zootecnia, e non di cibo per l’alimentazione umana.
Il Brasile, in particolare, è un protagonista imprescindibile di questo sistema. Il paese sudamericano è il primo produttore mondiale di soia: la regione preamazzonica del Mato Grosso è un’immensa monocoltura i cui prodotti sono esportati ovunque, principalmente in Cina (46 per cento del totale) e in Europa (12 per cento). Anche la zootecnia italiana non si differenzia poi così tanto e prende parte a questo circolo vizioso: ogni anno il nostro paese importa circa 1,3 milioni di tonnellate di soia, la metà delle quali dal Brasile.
È sulla spinta di questa domanda in crescita che la frontiera agricola brasiliana si sta spostando sempre più a nord, rosicchiando gradualmente l’Amazzonia. “Oggi il 19 per cento della foresta è stato già disboscato e sostituito principalmente da coltivazioni di soia”, afferma Rômulo Batista, responsabile foreste di Greenpeace Brasile.
AZIONE
Il problema andrebbe affrontato con un duplice approccio: sia a monte, dove vengono appiccati gli incendi per disboscare la foresta; sia a valle, da dove parte la richiesta di alimenti che si producono in quelle aree disboscate.
Per cui è necessario diventare consumatori consapevoli, supportando le aziende impegnate in catene di approvvigionamento consapevoli, riducendo o eliminando il consumo di carne, in particolare quella bovina. E quando sarà ora, supportare i leader politici che comprendono realmente l’urgenza della crisi climatica e che sono disposti ad intraprendere azioni concrete, forti e lungimiranti.
Informarsi, partecipare, trovare alternative e soprattutto adattarsi devono essere le parole chiave che ci guidano verso il cambiamento, non costrizione, rinuncia e sacrificio. Gli sforzi che facciamo per cambiare e migliorare il nostro rapporto con la natura, e quindi con il mondo, devono venire da un profondo senso di conoscenza della realtà in cui viviamo: siamo tutti parte del tutto, quindi questo tutto siamo noi stessi. Facciamo un danno a noi stessi quando lo facciamo a ciò che ci sta intorno. Siamo noi quegli alberi, quegli animali, quei fiumi che stanno bruciando dall’altra parte del mondo. Perciò prendersi cura del mondo diventa prendersi cura di noi stessi.
Se non si elimina alla radice il problema, comprendendone le logiche che lo alimentano, rimarrà per sempre inutile lamentarsi del continuo depauperamento del nostro pianeta e sperare in un “futuro migliore”.
Stefania Carbone specializzanda in Economia e Politiche Ambientali presso l’Università degli studi di Torino