Gallinae in Fabula Onlus

Piattaforma di ricerca e volontariato sulla diversità a partire da ecologia e animalità

Ai confini dell’antispecismo

di Rita Ciatti

Uno degli argomenti usato più di frequente per contestare l’antispecismo è che esso sia impossibile nellacoccinella-01 (1) prassi perché nessuno può evitare di uccidere insetti quando cammina o va in macchina.
Penso che questo argomento meriti di essere preso in considerazione e che non lo si possa liquidare con leggerezza, ma penso altresì che non sia valido o sufficiente per poter dire che l’antispecismo non esista.
Nella sua teorizzazione originaria l’antispecismo si occupa di combattere lo specismo, ossia la discriminazione morale degli animali non umani che di fatto ne giustifica e legittima il loro sfruttamento e la loro uccisione per i più svariati scopi e per un nostro tornaconto; è un pensiero e una prassi, quello dell’antispecismo, che mira a combattere quindi lo sfruttamento degli animali e tutte quelle pratiche di dominio intenzionale della specie umana sulle altre (quindi allevamenti, zoo, circhi, vivisezione, caccia e pesca “sportive”, corrida ecc.) così come li abbiamo istituiti e istituzionalizzati a livello sistemico e sistematizzato nelle nostre società.
L’uccidere insetti con la macchina o camminando non rientra invece in una pratica intenzionale di dominio o sfruttamento, è solo l’effetto sciagurato del nostro esistere e muoverci sul pianeta terra. Si tratta cioè di un effetto indiretto del nostro agire e del nostro esistere. Potremmo quindi fermarci qui e dire che tale questione degli insetti morti per errore non riguarda l’antispecismo.
Eppure qualcosa mi dice che se invece di insetti, a finire spiaccicati sul parabrezza delle auto fossero bambini o mammiferi, non liquideremmo così tanto facilmente la questione. Quindi forse è vero che un po’ di specismo continua a restare sedimentato anche in chi è pronto a dichiararsi antispecista (come me, del resto!) e che non è vero che consideriamo degni di ugual valore e considerazione proprio tutti tutti gli individui senzienti. Alcuni animali sono più uguali degli altri, scriveva Orwell, e forse questa è qualcosa di più di una mera legge sociale e politica. Sembra essere piuttosto una legge di natura necessaria e immodificabile. Detto in altre parole: alcuni animali sono più sfortunati di altri. Pensiamo agli insetti infatti, spazzati via a decine con un sol colpo di scopa o ai pesci, alle forme di vita, seppure sempre senzienti, più minuscole.
Generalmente ci giustifichiamo moralmente dicendoci che per quanto sia giusto cercare di ridurre al minimo il nostro impatto sulle altre forme minuscole di vita, non possiamo pretendere da noi l’impossibile, quindi imporci di non uscire di casa o non andare in automobile per evitare di renderci corresponsabili della morte degli insetti non è un pensiero da prendere in considerazione. Se anche, per ipotesi, smettessimo tutti di andare in giro in auto, il numero di insetti ucciso anche solo muovendoci il minimo indispensabile o per costruire le case in cui viviamo o per coltivare la terra – in pratica per sopravvivere – sarebbe comunque elevatissimo. Inoltre questo discorso non riguarda solo gli insetti, diciamo che in qualsiasi momento andando in macchina potremmo rischiare di investire ogni tipo di animale e persino un essere umano. E in generale facendo qualsiasi tipo di azione potremmo indirettamente e involontariamente provocare la morte o il danneggiamento di altri individui, umani o non.

Arrivati a un certo punto semplicemente capiamo che il nostro obbligo morale, per così dire, si ferma laddove confligge con la possibilità del nostro stesso esistere. A meno che non si voglia diventare martiri o abbracciare la religione Giainista.
C’è poco da fare. Vivere su questa terra, esistere su questo pianeta sottomessi a determinate leggi fisiche, contempla una distruzione continua, diretta o indiretta, di miliardi di forme di vita. Tutto l’esistere stesso si regge su un brulicare continuo e ininterrotto di creature che si fagocitano a vicenda. Camminiamo su una terra di cadaveri scriveva Elias Canetti e aveva ragione. Necessaria o meno, è indubbio che in natura ci sia sofferenza. Una spropositata e quasi inimmaginabile mole di sofferenza. Sento il pianto di tutte le creature che sono destinate a morire” dice Lars von Trier in Antichrist ed è indubbio che, a saper tendere bene le orecchie, ognuno di noi potrebbe arrivare a sentire quel pianto e persino restarne annichilito. Il punto è proprio se decidere di ascoltarlo o no. La maggior parte di noi sceglie infatti di fare come Ulisse di fronte al pianto delle sirene, un bel paio di tappi nelle orecchie e via, il dilemma morale è risolto, o meglio, non lo si è posto affatto.
Possiamo accettare l’evidenza della sofferenza in natura senza tante storie o cercare di trovarvi un senso, ma quello che non possiamo fare è negare che continuiamo a mantenere un atteggiamento specista – anche noi antispecisti – riguardo questo enorme problema ontologico.
Ad esempio tendiamo a pensare per deformazione culturale (la stessa che prima che divenissimo antispecisti ci faceva giustificare lo sfruttamento degli animali non umani) che gli animali che vivono liberi in natura siano felici e che la natura sia questo luogo di perfezione in cui tutto si autoregola mantenendo un perfetto equilibrio. Verissimo che si autoregola, ma a che prezzo? Al prezzo della morte di migliaia di individui singoli. Se è vero, come è vero, che ogni individuo è una singolarità unica e irripetibile, come possiamo accettare tutto ciò senza provare sconcerto, turbamento, dolore empatico? Lo sapevate ad esempio che solo una percentuale dei cuccioli nati riesce a sopravvivere e a divenire adulta? Certamente non possiamo essere onnipresenti e impedire che un predatore mangi la sua preda, ma credo anche che sia necessario sfatare il mito di questa natura bellissima e meravigliosa e perfetta. La natura è mostruosa. Punto. E non nel senso delle categorie bibliche di bene e male, ma proprio nel senso che l’esistere è fonte di evidente sofferenza oggettiva. Provate ad affermare il contrario. Vi sfido apertamente a dimostrarmi che un cucciolo divorato da un predatore o che muore di malattia senza avere la possibilità di essere curato sia un bello spettacolo. Che lo si debba accettare, non significa che non lo si debba o possa criticare o che lo si debba trovare per forza bello.
Cosa c’entra l’antispecismo con tutto ciò? Mi sono spinta troppo oltre? Non direi perché sono sicura che tantissimi altri antispecisti si sono posti queste stesse domande che mi pongo io e ci sono persino filosofi antispecisti che stanno concentrando i loro interessi di studio proprio sull’argomento della sofferenza in natura (ad esempio Oscar Horta ha spesso affrontato questo argomenti nei suoi scritti e nelle sue conferenze) e che hanno già risposto all’obiezione che non dovremmo intrometterci nella natura. Infatti è vero che noi ci intromettiamo continuamente in natura, lo facciamo da sempre, anche curarci le malattie è un impedire o bloccare o comunque deviare il “normale corso della natura” e non vedo perché dovrebbe essere un problema farlo non per i nostri unici scopi e tornaconti, ma in un’accezione veramente antispecista, ossia intervenendo per migliorare non già soltanto la nostra sorte, ma quella di tutti gli individui senzienti. Come farlo senza rischiare di cadere nell’ennesimo delirio di onnipotenza e senza peccare di hybris è un altro conto. E sarà, secondo me, la sfida dell’antispecismo nei prossimi anni. Probabilmente, se l’antispecismo ha davvero un senso e andrà avanti, dovrà prima o poi fare i conti con il problema della sofferenza in natura.
Intanto, se è vero che non possiamo impedirci di esistere, possiamo però cercare tutti quanti di limitare il nostro impatto sulle altre forme di vita, ad esempio soccorrendo animali in difficoltà ogni volta che ci capiti l’occasione senza usare la stupida scusante che “è giusto lasciar fare alla natura”. Direste così se si trattasse di vostra sorella o vostro figlio? Come mai ci curiamo quando ci ammaliamo o chiamiamo l’ambulanza quando restiamo vittime di un incidente anziché lasciar fare alla natura?
Farlo per gli appartenenti alla specie umana, ma tralasciare di farlo per gli animali non umani è specismo ed è ciò che dovremmo contestare nella pratica e non solo in teoria.
Penso tuttavia che in questo momento storico dobbiamo certamente ancora concentrarci e lavorare sodo per abolire lo sfruttamento degli animali non umani nelle società che abbiamo eretto, ma comincio a pensare che non sia affatto prematuro, perlomeno a livello teorico, iniziare a riflettere anche sulla sofferenza degli animali in natura perché se è vero che lo specismo è innanzitutto un pregiudizio morale, un’attitudine mentale e pregiudiziale che si autorafforza e autogiustifica socialmente e politicamente, è altrettanto vero che anche la nostra concezione della natura quale meccanismo perfetto e meraviglioso debba essere riveduta e corretta. Lo dobbiamo ai miliardi di individui che soffrono esattamente come noi e se interveniamo per migliorare le nostre condizioni di specie (riparandoci dal freddo, lottando contro la fame e le malattie ecc.), da veri antispecisti non possiamo evitare almeno di pensare a come fare per migliorare anche quelle delle altre specie. Non possiamo limitarci a dire che “la cosa non ci riguarda solo perché non l’abbiamo causata noi direttamente”. Nemmeno le malattie le causiamo noi direttamente eppure riteniamo lecito intervenire per curare i membri della nostra stessa specie all’interno delle nostre società. Dunque il discrimine sembrerebbe essere quello della natura, di contro alle società.
Anche se nella sua formulazione originaria l’antispecismo (che prende avvio dalla pubblicazione di Animal Liberation di Peter Singer) si occupa di lottare contro le forme di sfruttamento istituzionalizzato in società, è giusto che come ogni teoria  si evolva e sappia rispondere a sempre maggiori interrogativi. In un futuro prossimo che però è potenzialmente anche già qui, almeno nella direzione da intraprendere, se è vero che l’antispecismo mira ad abbattere la discriminazione morale di specie, dovrà farlo in maniera più estesa e compiuta.

7 commenti su “Ai confini dell’antispecismo

  1. Giorgio Cara
    aprile 26, 2014

    Riflessioni profonde, problema immenso e mis/per nulla conosciuto; è sempre questo dono dell’essere umano del saper selettivamente interessarsi di quanto ci piace, o dimenticare quel che è intollerabile.
    Quante lumache sono rimaste schiacciate alla conclusione dell’assemblea costitutiva dell’associazione antispecista, protrattasi fino alla sera, lungo il viale d’ingresso del centro congressi che l’ospitava? Quante formiche al termine della manifestazione animalista nazionale, conclusasi sul prato di Piazza San Giovanni a Roma?
    E quanti animali “da reddito” periscono per finire nelle scatolette con le quali quotidianamente, e senza troppo pensarci, nutriamo i nostri “amici pelosetti”?
    Quanti pensano a queste oggettive, indubitabili verità?
    L’arbitraria riduzione dell’essere a natura e dell’uomo a vuoto etico (G. Nicoletti) è il paradigma mai davvero sfidato avverso il quale gli antispecisti sono confrontarsi, oggi e ancor più in futuro. Perché, non può essere vero quanto Leopardi – come ricorda lo stesso Nicoletti – scriveva il 19 aprile 1826: che “Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive”.
    Il riscatto lirico, ci vien detto, fu sovrano nel caso del pessimismo del Poeta di Recanati: ma andateglielo a dire alla creatura, senza definita identità, sfocata e indistinta, che in ogni momento perisce in maniera spesso orribile, ma senza clamore nei nostri giardini, case, strade, straniera e aliena ai nostri cuori di mammiferi evoluti; senza rimpianti, o anche solo il conforto di un ricordo.
    Si dice che la chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni, cioè quella mormone, a Salt Lake City tenga, per quanto possibile, traccia tramite potenti computer di tutti gli esseri umani deceduti sino ad ora, per garantire a ciascuno un battesimo post mortem. Sarebbe, allora, bello pensare che un giorno potremo estendere la nostra empatia, benché ormai a posteriori, a tutti gli esseri che nel corso dell’esistenza ci hanno circondato e non ci sono più, insalutati compagni d’avventura, nostri fratelli su questo stesso globo.
    Per ricordarci di quanto ancora c’è da fare, attivamente, per quelli che sono invece adesso, anche se non ce ne accorgiamo, tutt’attorno a noi, proprio ora, proprio qui.

    • rita
      aprile 27, 2014

      Ciao Giorgio,
      grazie per il tuo commento molto lirico e per aver citato Leopardi che è senz’altro uno dei miei autori preferiti e quello che indubbiamente ha influenzato di più la stesura del mio scritto (anche se non l’ho nominato esplicitamente).
      Credo che la chiave per me sia questa: “Lo dobbiamo ai miliardi di individui che soffrono esattamente come noi e se interveniamo per migliorare le nostre condizioni di specie (riparandoci dal freddo, lottando contro la fame e le malattie ecc.), da veri antispecisti non possiamo evitare almeno di pensare a come fare per migliorare anche quelle delle altre specie”.

      Prendendo atto della sofferenza implicita nell’esistere, la domanda è: possiamo fare qualcosa per alleviarla e non solo la nostra di umani, ma quella di tutti proprio tutti, inclusi i non umani? Secondo me già stringerci in un’alleanza solidale, riconoscendo che siamo tutte creature mortali e destinate e soffrire è un primo passo.
      Noi umani ci siamo illusi per troppo tempo di essere immortali. Ce lo hanno fatto credere le religioni, raccontandoci la menzogna di un’anima immortale che noi possederemmo mentre gli animali no. La verità invece è che anche noi siamo animali al pari di tutti gli altri, per quanto più scaltri e capaci di migliorare in alcuni casi le nostre sorti legate alla sopravvivenza. Riconoscerlo e indirizzare le nostre abilità in direzione veramente antispecista è una sfida che dovremmo accogliere.
      Quindi per me la consapevolezza che “tutto è male” non vuole essere un pretesto per rifugiarmi in un pessimismo cosmico, ma un monito a cercare anzi di stringerci in un abbraccio fraterno (che poi anche Leopardi stesso arrivò infine a questa conclusione, infatti non era pessimista, secondo me, ma solo realista).

      Un abbraccio. 😉

      • rita
        aprile 27, 2014

        P.S.: l’illusione che noi saremmo immortali poiché dotati di un’anima rappresenta ovviamente l’apice dell’antropocentrismo. In realtà, come scriveva un altro grande, siamo “carne per vermi” al pari di ogni altra creatura.
        Riconoscere questo, riconoscerlo tutti intendo, sarebbe già un primo passo.
        Partire proprio dalla consapevolezza della nostra mortalità, che non è pessimismo, ma realismo. Lo dice anche il nostro caro amico Leonardo Caffo. 😉

  2. Riccardo
    aprile 27, 2014

    Bella riflessione Rita. La questione da te posta non è affatto banale. Ci sarebbe di mezzo anche il concetto gandhiano di ahimsa, ovvero evitare la sofferenza evitabile, che ben si concilia con l’antispecismo. Il ragionamento antispecista, poi, portato ai limiti estremi, troverebbe, penso, ragionevole, come unica forma di esistenza dell’essere umano, quella originaria di animale allo stato puro, l’unica che in effetti garantirebbe un perfetto stato di equilibrio con l’ambiente e le altre creature della terra. Al momento, ovviamento, questo, per chi è nato in una società radicalmente specista e occidentalizzata come la nostra, non è però proponibile. In termini più metafisici dovremmo anche domandarci forse se il destino dell’essere umano sarà sempre legato all’esistenza di un corpo fisico e dei suoi bisogni biologici e se la nosta attuale condizione sia solo transitoria. Un abbraccio,
    R

    • rita
      aprile 28, 2014

      Ciao Riccardo, grazie.
      Sì, il concetto gandhiano di ahimsa mi pare indichi proprio che non si deve ferire o danneggiare alcun essere vivente, pure se in effetti ci si scontra poi con il reale impatto del nostro esistere sul pianeta e sulle forme di vita talmente minuscole, come gli insetti, che è praticamente impossibile non danneggiare. Ripeto, noi moralmente ci giustifichiamo dicendo che l’etica presuppone intenzionalità, ma dal punto di vista dell’altro, che è ciò di cui la filosofia antispecista si occupa, una formica che muore è sempre una formica che muore e non è che soffre di meno sapendo che noi “non l’abbiamo fatto apposta”.
      La domanda che ti poni in termini più metafisici è particolare, certamente è difficile oggi avere una risposta, però chissà, magari in un futuro lontanissimo ci evolveremo sempre più in direzione di una pura energia (del resto le I.A. sembrano anticipare questa che al momento appare solo un’utopia).
      Mi viene in mente un romanzo di Houellebecq che si intitola La possibilità di un’isola ambientato in un futuro prossimo in cui l’umanità ormai comunica solo attraverso computer.

      • Riccardo
        aprile 29, 2014

        Non ho letto molto di Gandhi, ma da quel che ho letto il suo concetto di ahimsa (non-violenza) non è così estremo, anche se Gandhi contempla nella pratica nonviolenta anche gli altri esseri senzienti, però lascia spazio ad alcune possibilità di nuocere o uccidere altre creature (comprese creature umane, ad esempio per difendere un innocente). Il concetto gandhiano di ahimsa è in realtà molto complesso, ad esempio lui partecipò in prima persona a due guerre (seppur nel corpo di pronto soccorso, ma sempre come ausiliario a chi uccideva comunque esseri umani) ritenendo ciò in linea con il suo concetto di non-violenza. Il concetto di ahimsa proprio dell’induismo non so cosa esattamente implica, ma non penso coincida con il pensiero di Gandhi, che, come dicevo, è molto vicino al pensiero antispecista. Tolstoj invece mi pare che aveva sì una posizione più estrema contro la violenza, se non sbaglio.
        ciao,
        R

  3. rita
    aprile 29, 2014

    Sì, hai ragione Riccardo, mi sono sbagliata io nel formulare il pensiero, volevo dire in realtà che il concetto di ahimsa originario induista contempla proprio il rifiuto della violenza, invece la nonviolenza gandhiana ammette un certo uso di violenza per difendere degli innocenti, o quantomeno forme di azione di resistenza che potrebbero anche danneggiare altri viventi.

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Questa voce è stata pubblicata il aprile 26, 2014 da in Articolo.

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